Come noto agli operatori del diritto, la “testimonianza” nel processo penale costituisce un momento tanto delicato quanto centrale nella celebrazione del processo, costituendo la “pietra angolare” della istruttoria dibattimentale all’esito della quale verrà pronunciata la sentenza, di condanna ovvero di proscioglimento, nei confronti dell’imputato.
L’irrinunciabile mezzo di prova in parola, per quanto “architrave” del processo penale, è stato oggetto di un atteggiamento circospetto da parte dei più attenti giuristi, i quali hanno concordemente ravvisato i pericoli che si annidano nelle risultanze probatorie scaturenti dall’escussione di un testimone, soprattutto avendo riguardo alla intrinseca ed inevitabile “fallibilità” del ricordo umano.
Sebbene il testimone sia “l’occhio e l’orecchio” della giustizia, come anche evidenziato dalla migliore psicologia forense, è innegabile che egli, anziché fornire al giudice “una fotografia del passato” esponga, piuttosto, “il ricordo del ricordo” dei fatti dei quali ha avuto percezione, soprattutto laddove si consideri, come avviene ormai costantemente nella prassi giudiziaria, che la testimonianza viene resa a distanza di molti anni dall’accadimento dei fatti storici oggetto della stessa.
Giova ricordare, infatti, che – considerando quanto mediamente avviene nei procedimenti penali italiani – il possibile testimone sarà ascoltato in un primo momento, nella prodromica fase delle indagini preliminari, dagli organi inquirenti (Pubblico Ministero o Polizia Giudiziaria) e poi, solo in un secondo momento, sarà ascoltato, quale vero e proprio “testimone” in senso tecnico, nella successiva fase dell’istruttoria dibattimentale del procedimento penale, ove sarà interrogato e contro interrogato dal pubblico ministero e dalla difesa (c.d. cross examination); ciò, come detto, avviene solitamente a distanza di molti anni dal fatto storico oggetto di imputazione. Secondo il principio della “formazione della prova nel contraddittorio fra le parti”, sancito dall’art. 111 Cost., il quale impone che la sentenza nel procedimento penale si fondi su prove (quali la testimonianza) assunte in costanza di un’interlocuzione dialettica fra pubblica accusa e difesa, le uniche deposizioni utilizzabili dal giudicante per pronunciare la sentenza saranno proprio queste ultime, rilasciate nel corso dell’istruttoria dibattimentale a distanza di molti anni dall’accadimento dei fatti oggetto di imputazione. La sentenza non sarà dunque motivata sulle dichiarazioni originariamente rilasciate agli inquirenti dal possibile testimone, in assenza della difesa ma ad una minore distanza temporale dai fatti, ma esclusivamente su quanto deposto dal testimone in pubblica udienza alla presenza della difesa, del pubblico ministero e del giudice, cioè “nel contraddittorio fra le parti” nella successiva fase dibattimentale, a distanza – lo si ripete – di molto tempo dai fatti sui quali è chiamato a deporre il teste.
La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, appare insensibile ai moniti in punto di “fallibilità” del mezzo di prova in questione avanzati sia dagli studiosi del processo penale, che dalla migliore psicologia forense.
Soprattutto avendo riguardo alla negativa influenza che il decorrere del tempo esercita sui ricordi del testimone, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione pare più preoccupata a fare salve, ove possibili, le risultanze probatorie emerse dalla testimonianza più che a vagliare criticamente, in chiave autenticamente garantista, la concreta “attendibilità” di tale mezzo di prova, connotato ex se da un elevato grado di fallibilità, concretizzandosi di fatto in una narrazione reminescente di fatti ormai remoti nel tempo.
Utilizzando un lessico a-tecnico, si potrebbe definire l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione “filo-testimoniale”, sebbene, prevalentemente, in chiave accusatoria.
E’ così che, compiendo una veloce panoramica della giurisprudenza di legittimità sul punto, senza alcuna pretesa di esaustività, si apprende che il testimone, sino a prova contraria, “riferisce correttamente quanto a sua effettiva conoscenza” e che eventuali “incompatibilità” con altre fonti probatorie non inficiano l’attendibilità del teste che difetti di ricordi su elementi non essenziali della deposizione (Cass. pen. Sez. I, 13.3.1992, ric. Di Leonardo).
Ancora, secondo i Giudici nomofilattici, è possibile recuperare la valenza probatoria delle dichiarazioni rese avanti agli inquirenti (quindi senza contraddittorio fra le parti ed in violazione del relativo principio costituzionale) se il testimone conferma in dibattimento quanto allora dichiarato ai soli inquirenti, affermando che al tempo dell’assunzione della prima deposizione (quella resa agli inquirenti in assenza della difesa) il “ricordo era più fresco” (Cass. pen. Sez. I, 14.5.2009 – 4.6.2009, n. 23012).
Proseguendo la nostra panoramica, in materia di reati sessuali, severamente puniti dal nostro ordinamento, l’orientamento costante della Suprema Corte di Cassazione è quello di accordare attendibilità alla testimonianza della persona offesa anche in assenza di ulteriori riscontri alla sua
testimonianza, che quindi può essere, essa sola, sufficiente a motivare una pronuncia di condanna (cfr. ex pluris, Cass. pen. Sez. V, 21 febbraio 2014, n. 8378).
La “capacità di ricordo” della vittima del reato viene tangenzialmente valorizzata, con riferimento a reati sessuali ai danni di minori d’età, unitamente ad altri e molteplici elementi che debbono corroborare l’attendibilità della testimonianza della vittima, in una pronuncia della Suprema Corte, ma il vaglio effettivo della stessa capacità viene soverchiato da un’applicazione restrittiva di altri principi garantistici, quale quello della condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”, che ha condotto dunque ad una condanna degli imputati nel caso di specie (cfr. Cass. pen. Sez. III, 19 giugno 2014, n. 26466).
Unico argine alla pervasiva fiducia che la giurisprudenza nomofilattica accorda al testimone, soprattutto se vittima del reato, nonostante l’acclarato status di incerto “rimembratore” di fatti oramai remoti nel tempo, si rinviene in una pronuncia in cui i Giudici di legittimità impongono ai giudici di merito un “onere motivazionale rafforzato” nel caso la testimonianza venga assunta a distanza di molto tempo dai fatti storici: il Giudice, in tal caso (nella prassi quasi sempre ricorrente), dovrebbe dare conto nella parte motiva della sentenza del perché il decorrere del tempo non avrebbe inficiato l’attendibilità del ricordo e dunque della testimonianza (Cass. pen. Sez. III, 14 maggio 2015 – 16 luglio 2015, n. 30685).
In caso di pluralità di fatti storici su cui il teste è chiamato a deporre, soprattutto “con cadenze cronologiche non recenti”, è ammessa, secondo la giurisprudenza di legittimità, una “valutazione frazionata” di attendibilità delle dichiarazioni del teste: si può quindi accordare fiducia ad alcune dichiarazioni e non ad altre rese dal medesimo soggetto nel medesimo contesto “dibattimentale” (Cass. pen. Sez. III, 22 dicembre 2017 n. 24979).
Recentemente la Corte di Cassazione, ribadendo l’orientamento ormai costante già poc’anzi citato, ha ammesso la legittimità del rimando del testimone, in sede dibattimentale, alle dichiarazioni precedentemente rese agli inquirenti nella fase delle indagini preliminari allorquando il “ricordo era più vivido”, nullificando de facto il principio della “formazione della prova nel contraddittorio fra le parti” (cfr. Cass. pen. Sez. II, 28 febbraio 2017 – 5 aprile 2017, n. 17089).
In sintesi, dal quadro certamente incompleto ma non di meno composito emergente dalla sintetica panoramica giurisprudenziale offerta, si può affermare che la giurisprudenza nomofilattica risolve l’annoso problema della “fallacia del ricordo” predisponendo meccanismi surrettizi di recupero delle deposizioni rilasciate dal testimone agli inquirenti in assenza della difesa, sacrificando però irrimediabilmente il principio, di rango costituzionale, del “contraddittorio nella formazione della prova”.